La madre del bosco
La prima Storia Storta è una rivisitazione della fiaba di Hansel e Gretel
Sono morta il giorno in cui mia madre mi ha lasciata nel bosco. Sono nata il giorno in cui mia madre mi ha trovata nel bosco.
Era l'inverno dei miei dodici anni quando sanguinai per la prima volta. Poi vennero le altre catastrofi.
La prima fu la grandine, che distrusse i raccolti, chicchi così grossi da danneggiare i tetti delle case. Poi fu il freddo. La terra divenne dura, inospitale. Gli animali fuggirono, la selvaggina divenne rara. Non c'era carne sulle nostre tavole per settimane. Non c'era carne nel bosco, i lupi si avvicinarono. Di notte sentivamo le loro preghiere pagane alla luna.
Non ci era consentito andare nel bosco da soli. Non dopo quello che era successo al figlio del taglialegna, almeno.
Fino a quel momento, il bosco era stato la mia casa. D’estate mi piaceva andare nella mia radura, sdraiarmi sull’erba fresca e umida, sentire il frusciare delle foglie, il ronzio degli insetti. In primavera il verde si punteggiava di fiorellini bianchi e rossi, che poi maturavano in bacche dolci e succose, che macchiavano i vestiti e le punte delle dita.
Ma quell’inverno il piccolo Jacob si era perso e il bosco se l’era preso. A nulla erano servite le ricerche, gli uomini avevano ritrovato solo qualche brandello della sua mantella. Le urla del taglialegna si erano sentite fino a casa nostra. Il villaggio si era stretto attorno alla famiglia in lutto, maledicendo i lupi, ma la fame aveva già iniziato a mettere radici nelle loro teste, lo si vedeva nei loro occhi, e forse qualcuno iniziava a pensare perché mai lasciare ai lupi quello che può essere nostro?
Dopo il freddo, venne il fungo. Il poco grano che avevamo di riserva iniziò a marcire, divorato da una muffa nera, divenne inservibile. La notte stavo sveglia immaginando lauti banchetti e leccornie di tutti i tipi, salivando al pensiero di un succoso coniglio arrosto, o delle frittelle di mele che mia madre era solita preparare in autunno. Sentivo il mio corpo che fagocitava sé stesso, potevo quasi percepire le mie ossa che venivano consumate dagli altri organi. I denti avevano iniziato a muoversi nelle gengive. Lo stomaco si torceva dai crampi, provavo a riempirlo di aria, di acqua, di storie, che raccontavo a mio fratello in quelle lunghe notti insonni, che passava contorto dai dolori. Gli raccontavo di una fata che viveva nel bosco, una fata buona che ci avrebbe ricompensato con uno splendido banchetto, se avessimo fatto i bravi. E, mentre raccontavo, potevo quasi sentire il calore del brodo scivolare giù dalla gola, la salsa dello stufato sporcarmi gli angoli della bocca e l'odore dolce del pezzo forte, una gigantesca casa di pan di zenzero. Gliela descrivevo per filo e per segno, le piccole finestre, le guglie, i tetti spioventi, le porticine. Quelle notti, quando Hans ormai dormiva, mi sembrava di sentire gli odori di quei cibi, e di altri ancora che non avevo mai provato prima. Li sentivo come se fossero veri, mi invitavano a seguire la loro scia. Nel bosco.
Una famiglia aveva ceduto alla fame e mangiato il grano, marciume incluso. Causò loro un'orribile malattia, iniziarono ad avere allucinazioni di spiriti maligni che li perseguitavano, vedevano una donna in bianco ai confini del bosco che li spiava, dicevano che voleva prenderli, così come aveva preso il piccolo Jacob. Poi la febbre mise fine alle loro sofferenze. Quella sera, insieme ai corpi, bruciammo il grano muffito. L'odore della loro carne che bruciava sul rogo mi fece aumentare la salivazione. Inghiottii la mia vergogna.
Non avevamo una chiesa nel villaggio. Prima della fame, ogni domenica, eravamo soliti andare a quella del villaggio più vicino, per ascoltare il prete che parlava in quella lingua sconosciuta, le cui parole si mischiavano dolcemente le une alle altre, come una nenia. Mia madre ci aveva insegnato le parole che dovevamo pronunciare noi, e quando pronunciarle. Mi piaceva dirle, talvolta lo facevo tra me e me quando ero sola, mi piaceva il modo in cui quelle parole si arrotolavano sulla mia lingua. Ma quando venne la fame, smettemmo di andare. Non avevamo energie da sprecare in lunghe camminate. Mia madre costruì un piccolo altare casalingo: «Dio ci vede anche qui.» disse, ma io dubitavo che quel Dio ci avesse mai visti. E anche se ci vedeva, di certo non capiva le nostre preghiere, abituato come era a quella lingua che profumava di olio e vino, mentre la nostra suonava come metallo. Gli esseri umani, si sa, sono opportunisti come lupi affamati, e ben presto al villaggio tornò l'ombra dei Vecchi Dei, banditi ben prima della mia nascita.
Dei nati dalle rocce, dal fango, che odoravano di foresta, la cui voce suonava come il rombo di un tuono. Dei che capivano il freddo, la fame, la pestilenza. I loro riti erano sopravvissuti, praticati in gran segreto, tramandati di generazione in generazione e ora allungavano le loro lunghe dita sul villaggio. I Vecchi Dei erano misericordiosi e conoscevano la natura umana. I Vecchi Dei erano pronti a perdonarci. Ma il perdono ha un prezzo. Ed ecco che gli sguardi famelici si muovevano alla ricerca di una vittima.
Non erano le uniche superstizioni che si erano risvegliate. La scomparsa del bambino aveva fatto riemergere antiche ombre, fino a quel momento considerate solo storie da raccontare ai bambini la sera davanti al fuoco. Lo ha preso Lei, sussurravano i ragazzini, ma senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce, quasi per non chiamarla, per non essere presi anche loro. E quella parola, che tutti pensavamo, ma nessuno diceva. Strega.
Mentre la terra marciva, io ero fiorita. Il mio corpo era divenuto florido, la mia pelle rosea, i miei capelli lunghi e lucenti. E sapevo, da come mi guardavano al villaggio, che avrei risvegliato i loro appetiti. Se ne accorse anche mia madre. Una sera, mentre tornavo dal pozzo, la sentii discutere con mio padre. «Solo uno,» diceva lui «e il ragazzo ci serve.»
Quando entrai in casa, fecero finta di niente, ma qualche ora dopo lei venne a svegliarmi. Era ancora notte, Hans e mio padre dormivano. Mi disse solo di vestirmi in fretta, che andavamo nel bosco a cogliere le bacche. Non andavamo più nel bosco per colpa dei lupi, e non c'erano più bacche sugli arbusti gelati, ma comunque ubbidii. Mi condusse per mano, come quando ero ancora bambina, piangeva anche se cercava di nasconderlo. Mi diede un po' di liquore da bere, per il freddo disse, e io mandai giù qualche sorso. La mattinata era gelida, la luna era fatta di ghiaccio. Camminammo a lungo, uscimmo fuori dal sentiero. Conoscevo bene il bosco, ma non quanto mia madre. Prima della fame era solita andare a cogliere le erbe per curarci o che usava nello stufato. Ben presto persi l'orientamento. Il cammino si fece sempre più arduo, le radici degli alberi uscivano dal terreno come dita, facendomi inciampare. Mia madre procedeva spedita, senza mai lasciarmi la mano. Talvolta sentivo qualche rumore alle mie spalle, un ramo spezzato, un movimento. Sussultavo e mi voltavo, senza vedere niente. Mi sentivo seguita. «È solo una lepre.» diceva mia madre, anche se non c'erano più lepri. Arrivammo a una radura. Si sedette sull'erba ghiacciata e così feci anche io. Poi mi prese il viso tra le mani e iniziò a cantare la canzone che ci cantava quando eravamo piccoli, a me e Hans, per farci addormentare. Non capivo cosa stesse succedendo, ma mi sentii stanchissima. Poggiai la testa sul suo grembo e mi lasciai cullare, come una bambina. Uno strano calore avvolse tutto il mio corpo, sentivo la testa e le mani pesantissime. Lei mi sfiorava i capelli e cantava e piangeva. «Mi dispiace» diceva «È per il tuo bene, è meglio così».
Non potei resistere oltre e mi addormentai lì. Pensavo che fosse la morte, quella che mi cullava e mi accarezzava i capelli. Mia madre mi aveva abbandonata lì a morire, per il freddo o divorata dai lupi. Era la sua idea di clemenza, una morte per mano della natura era più pacifica che una morte per fame, o per mano della mia comunità, del mio stesso padre. Si era risparmiata il dolore di vedermi uccisa, divorata, la carne della sua carne. Per non vedermi sacrificata alla dea della carestia, mi aveva sacrificata alla dea del bosco. Mi aveva condotto al patibolo, e nessun angelo aveva fermato la sua mano. Ma la dea del bosco, si sa, non si placa facilmente.
Fu Hans a svegliarmi. Ci aveva viste uscire, ci aveva sentite parlare di bacche e ci aveva seguito di nascosto. Il mio piccolo leprotto. Aveva visto nostra madre lasciarmi svenuta per terra, mi aveva soccorsa, tenuta al caldo come poteva. Ormai il sole era sorto. Il ghiaccio sui fili d'erba scintillava e iniziava a sciogliersi. Mi vennero in mente le parole di mio padre su Hans, risi dell'amara ironia che era toccata ai miei. Il loro prezioso figlio maschio. Ne avevano sacrificata una, ma li avevano persi entrambi. Hans non capì perché ridessi, era spaventato. Non si era mai addentrato così nel bosco da solo e sapeva di non essere in grado di tornare indietro. Nemmeno io lo ero, ma mentii, gli dissi di seguirmi, iniziai a camminare a caso. Appartenevo alla foresta ora, speravo che mi avrebbe guidata lei.
Mi raggiunse una scia, un profumo fantasma, di quelli che sentivo nel cuore della notte. Anche Hans lo sentiva. Iniziammo a correre verso l'odore, euforici, come cuccioli di cane, senza chiederci da dove provenisse o come fosse possibile. I rami e gli arbusti ci graffiavano il volto, le braccia, i vestiti, ma non ci fermammo. Poi la vedemmo: una casetta di legno, con il tetto di paglia, da sola in mezzo la bosco. Era dalla sua finestra che proveniva il profumo. Ci avvicinammo, la fame più forte della paura. La porta era socchiusa, lo prendemmo per un invito e corremmo dentro, trovandoci in una stanzetta, scaldata da un grosso camino acceso su cui era posto a bollire un pentolone. Ma non facemmo caso a nulla di tutto ciò. L'unica cosa che vedemmo fu il tavolo di legno, imbandito con tutti i piatti della nostra immaginazione, il coniglio, il brodo, lo stufato. Mancava solo la casetta di pan di zenzero. Ci fiondammo sul cibo, rempiendoci la bocca più che potevamo. Non importava quanto mangiassimo, le pietanze sembravano non finire mai. Anche la nostra fame sembrava non finire mai. Nonostante il brodo mi bruciasse il palato, la salsa mi rendesse le mani appiccicose, quel cibo non era in grado di saziarci. Il nostro stomaco era un abisso. Non so quanto tempo restammo a quella tavola, mangiando con foga, divorando ciò che riuscivamo. Forse ore, forse secondi. Ma ricordo quando arrivò la Seconda Madre. Una vecchina così fragile che sembrava essere sul punto di disintegrarsi al minimo tocco. Vedendola entrare, interruppi il mio pasto, vergognandomi delle mie azioni e dell'aspetto che dovevo avere. Hans non si fermò, si accorse a malapena della donna. Gli tirai un calcio sugli stinchi da sotto al tavolo, solo allora alzò la testa dal piatto, con un moto di stizza.
Ma la vecchia ci invitò a continuare il nostro pasto, ci disse che potevamo restare la notte, ché «i bambini da soli non devono stare nel bosco, troppe ombre strisciano nel bosco».
Le dissi che non ero più una bambina e lei sorrise e si andò a sedere vicino al camino, sbocconcellando un pezzo di pane raffermo, mentre noi divoravamo quel cibo gustoso e saporito, di cui non riuscivamo ad averne abbastanza. Mi fece un'immensa tristezza, così, con fatica, mi staccai dal tavolo e mi avvicinai a lei.
«Lei non mangia?» le chiesi. Per tutta risposta mi porse un pezzo di quel pane duro e grigio. Avrei preferito tornarmene al tavolo al mio stufato di coniglio, ma diedi un morso per educazione. Dopo che ebbi mangiato il pane, si alzò e prese due scodelle da uno scaffale di legno. Le riempì con la brodaglia che stava cuocendo nel calderone, un liquido verdastro e torbido, che puzzava indicibilmente. Mi porse la scodella, poi si sedette e iniziò a bere la sua. Guardai con la coda dell'occhio Hans, che stava divorando anche la roba nel mio piatto, senza accennare a smettere. Avrei voluto unirmi a lui, ma temevo che se mi fossi mostrata ingrata, la vecchia ci avrebbe sbattuti fuori dalla casa, nel bosco. Così bevvi la brodaglia, il cui sapore era acre, ma che sembrò scaldarmi e riempirmi lo stomaco molto più delle leccornie sul tavolo. E così, quel giorno, la Seconda Madre mi salvò la vita.
Imparai presto i miei compiti, nella casa nel bosco. Dovevo occuparmi delle pulizie, mentre Madre passava lunghe ore nel bosco, e non fare mai spegnere il fuoco. Sul camino c'era sempre il calderone con dentro il brodo orribile, che cuoceva perennemente. Lo mangiavamo due volte al giorno, Madre e io, insieme a del pane raffermo o, se Madre aveva avuto fortuna nel bosco, a un coniglio tutto ossa arrostito. Quando Madre tornava dal bosco, infilava tutte le erbe che aveva trovato, talvolta qualche fungo, nel calderone, insieme al resto della brodaglia. Le chiedevo se non era preoccupata della carestia, del freddo, della muffa nera, come avesse fatto a sopravvivere da sola nel bosco. Lei mi rispondeva che non si preoccupava mai, perché il bosco le dava sempre esattamente ciò di cui aveva bisogno.
Ogni giorno dovevo controllare i coltelli e un seghetto, le poche cose che possedeva, accertarmi che fossero puliti e affilati. Ogni sera controllava lei stessa il mio lavoro. Eppure non glieli avevo mai visti usare.
Talvolta mi portava con lei nel bosco, mi spiegava le erbe e i loro usi, mi diceva quali funghi e quali bacche erano commestibili e quali velenosi. Ma la maggior parte del tempo ero chiusa nella casetta, intenta a pulire e rifocillare il fuoco. Hans, invece, passava il tempo al tavolo di legno, a mangiare squisitezze che nessuno preparava, ma che comparivano magicamente ogni giorno. Quel cibo non lo saziava mai, ma lo aveva fatto ingrassare. Vedevo la carne straripare dai pantaloni, la camicia contenere a malapena la pancia, tanto che Madre mi incaricò di confezionargli nuovi vestiti usando delle vecchie stoffe logore, una tovaglia, una vecchia mantella rossa sbrindellata. Io,invece, mi vedevo sfiorire. Le mani mi si erano riempite di calli, i miei capelli erano diventati grigi, come la fuliggine del camino, come la brodaglia che ribolliva nel calderone.
C’era solo una cosa che Madre non mi aveva mai insegnato. A volte la vedevo armeggiare con dei piccoli oggetti, strani sassi, perline colorate, denti, una conchiglia persino. Li teneva in una sacchetta, che portava sempre con sé. Davanti al fuoco, di notte, quando pensava che mi fossi coricata, estraeva la sacchetta e ne rovesciava il contenuto. Fissava poi i suoi piccoli tesori, toccandoli, studiando la loro disposizione. Non avevo idea di cosa fosse quel rituale e bruciavo di rabbia. Bramavo quei piccoli oggetti e la conoscenza che promettevano.
Un giorno, mentre andavo a prendere dei tizzoni per il camino, trovai delle ossa, nella terra, appena dietro la casetta. Dei denti, un piccolo teschio frantumato, qualche vertebra. Tenni uno dei denti.
Il profumo delle pietanze di Hans mi faceva torcere lo stomaco, ma non potevo toccare nulla. Era una delle regole della casa nel bosco. Il cibo sul tavolo era di Hans, solo di Hans. Io potevo prendere il brodo nel calderone tutte le volte che volevo, ma il cibo buono era solo di Hans. Lo odiavo per questo. E odiavo anche Madre. Non ero forse io la maggiore? Non ero forse io che mi prendevo cura di lei la sera, quando il suo corpo sembrava ancora più fragile del solito? Non ero io a badare alla casa mentre lui si abbuffava in continuazione? Eppure era lui che aveva il cibo migliore, lui che aveva persino vestiti nuovi mentre io venivo ricompensata solo con altro lavoro. Io venivo abbandonata nel bosco a morire.
La notte fantasticavo sulle mie vendette, su come avrei ucciso Hans e la nostra ospite. In questi sogni lucidi, la figura della vecchia e quella di mia madre si mescolavano, divenivano complici, entrambe colpevoli dei loro peccati. Una volta andati, avrei avuto tutto il cibo per me, avrei avuto la casa nel bosco, non avrei mai più dovuto ingurgitare quell'orribile brodaglia fetente.
Una sera Madre tornò più tardi del solito. Hans già dormiva, la faccia ancora riversa nel piatto, le mani e gli abiti unti.
Senza dire una parola, si avvicinò al brodo e ne assaggiò una cucchiaiata.
«È pronto,» disse col suo sorriso sdentato «manca solo il nostro ingrediente speciale».
E iniziò a parlare di un lauto pasto che avremmo presto fatto, io e lei, sua figlia. Ma non fece in tempo a finire di parlare, che subito cadde addormentata. Era stata lei a insegnarmi a trovare le erbe giuste, a riconoscere i fiorellini rossi e le bacche nere, come ferite purulente, mi aveva mostrato come essiccare quelle piccole foglioline verdi, dall'odore nauseabondo, e mi aveva spiegato come usarle per creare un sedativo. Avevo fatto tutto bene, proprio come mi aveva insegnato Madre.
La prima cosa che divorai fu il suo cuore. Lo strappai che ancora pompava. Lo mangiai crudo, lì per terra. Per raggiungerlo avevo usato il vecchio seghetto. Il sangue caldo mi aveva impregnato i vestiti, li aveva resi appiccicosi. Lo sentivo colare dalla mia bocca, sentivo il suo sapore metallico. A ogni morso mi sentivo più viva. Sentivo spegnersi quella fame che avevo creduto incolmabile, atavica, quell' abisso che avevo dentro, lo sentivo rimpicciolirsi ad ogni morso, a ogni goccia di quel sangue nero che andava giù.
Fu così che Hans mi trovò, accucciata a terra, intenta a divorare il mio pasto osceno, ebbra di quel sangue, il corpo della vecchia ancora tiepido. Mi guardò con orrore e disgusto, e con ancora più orrore e disgusto guardò il banchetto che aveva passato le ultime settimane a consumare e scoprì vermi e terriccio, frutta marcia, carcasse divorate dalle larve, là dove prima c'erano stati pasticci succulenti e arrosti saporiti. Emise un grido, provò a pulirsi la bocca insozzata. Morta la vecchia, si era risvegliato dal torpore che lo aveva imprigionato dal suo arrivo alla casa nel bosco. Risi, il sangue sgorgava tra i miei denti. Hans si allontanò orripilato da quello scempio, inciampò nella sedia, il suo corpo così ingrassato gli era estraneo. Presi il fedele seghetto e mi alzai, il cuore di Madre ancora in una mano. Lui indietreggiò, strisciando per terra. Pensai a cosa farne di lui, avrei iniziato dal suo cuore? Forse dal suo fegato. Il povero piccolo Hans, Hans che aveva avuto salva la vita, Hans che aveva avuto i cibi migliori. Il ragazzo ci serve.
Corse nella notte gelida del bosco. Lo vidi allontanarsi, svanire tra gli alberi. Chiesi al bosco di condurlo salvo al villaggio. Che raccontasse della Madre del bosco, che avrebbe divorato i loro figli. Delle ombre che strisciano tra gli alberi che li avrebbero condotti a me. Sarei stata io a popolare le storie per spaventare i bambini ora, io ad animare i loro sussurri. Strappai la sacchetta al collo della vecchia, aggiunsi il dente che avevo trovato al suo contenuto. Poi mi misi davanti al fuoco e iniziai a leggere. Ad attendere.
Il bosco, si sa, non è posto per i bambini.
(Mi viene in mente Gretel & Hansel, di Oz Perkins)
Bellissima, attendo la prossima! ⭐