Doll parts
In questa Luna Storta che profuma di zenzero parliamo di due storie di bambole, Barbie e Pinocchio, e di come un oggetto inanimato può insegnarci cosa vuol dire essere umani
Ciao!
Questa è Luna Storta, la newsletter consegnata direttamente dalla Befana. Quale miglior modo per iniziare questa epistola invernale se non parlando del regalo di Natale per eccellenza, la bambola?
Quest'estate il film Barbie, scritto e diretto da Greta Gerwig e interpretato e prodotto da Margot Robbie, ha dominato il botteghino e non solo, ispirando articoli e discussioni sui social per settimane e inondando le vetrine dei negozi di roba rosa e plasticosa. Lo so cosa starai pensando, che ci azzecca la nostra eroina bionda con le fiabe? La verità è che, guardando il film, non ho potuto fare a meno di confrontarlo con un altro, in cui un’altra bambola, anzi un burattino (che poi sarebbe una marionetta, ma tant’è) affronta un sistema rigido e discriminatorio e ci insegna cosa vuol dire essere umani. Si tratta di Pinocchio, film di animazione del 2022 diretto da Guillermo del Toro, rivisitazione della fiaba di Carlo Collodi. Ho pensato così di mettere a confronto due pellicole tanto diverse quanto simili, per scoprire cosa hanno da dirci le bambole sulla nostra condizione mortale.
Iconoplastic
Il film ha una trama piuttosto semplice: un bel giorno la Barbie Stereotipo, che vive con tutte le altre Barbie a Barbieland, scopre con orrore di stare cambiando, cosa inaudita nella sua vita che si ripete ogni giorno identica e perfetta. Non solo, sta cambiando in peggio: sulle sue gambe compare un accenno di cellulite e persino i suoi iconici piedi a mezzapunta diventano piatti, causandole non pochi problemi di equilibrio. Così, seguendo i saggi consigli di Barbie Stramba, dovrà recarsi nel Mondo Reale, per scoprire la causa di queste mutazioni. È lì, anzi qui, che scopre che il mondo degli esseri umani è ben lontano da quello di Barbieland: la gente invecchia, le ragazze popolari non la apprezzano più e, sommo orrore!, esiste il patriarcato. Anche Ken, unitosi di soppiatto a Barbie nel suo viaggio, avrà una rivelazione speculare e deciderà di importare il patriarcato a Barbieland, o almeno la sua personale interpretazione del patriarcato, dando vita al dominio dei Ken. Così Barbie, con l’aiuto di Gloria e Sasha (madre e figlia, le “proprietarie” di Barbie nel mondo reale), dovrà fare ritorno nella sua città di plastica e ristabilire l’ordine turbato dai Ken. Alla fine, abbattuto il patriarcato tramite la soppressione del voto democratico, scopriranno che era stata Gloria a causare tutti quei cambiamenti in Barbie: sentendo la mancanza del rapporto con la figlia, ormai adolescente, aveva riversato le sue emozioni sul giocattolo che un tempo le aveva legate. Infine, complice una visione di momenti felici e dolorosi della vita delle donne e un incontro con la sua creatrice Ruth Handler, Barbie deciderà di unirsi agli esseri umani e stabilirsi nel Mondo Reale, per diventare finalmente una bambina vera, mentre la Mattel deciderà di vendere una Barbie Ordinaria. The end, titoli di coda.
Il film passa una buona parte del tempo a seguire le vicende (spassosissime) di Ken, offrendo una critica molto intelligente alla mascolinità, al suo galateo, alla sua teatralità, ai complicati rituali che gli uomini mettono in atto gli uni con gli altri per evitare di dover mostrare anche solo mezza emozione umana. Paradossalmente non è altrettanto incisivo nei rapporti tra i personaggi femminili, che restano un po' di superficie. Avrebbe giovato di più scene in cui Barbie passa del tempo nel mondo reale e ha esperienza diretta della vita mortale, invece di un paio di dialoghi e una visione mistica, stile Gesù sul Golgota. Lo stesso monologo di America Ferrera al culmine del film avrebbe avuto molto più impatto se avessimo visto in atto certe discriminazioni, invece che sentircele dire.
In generale, credo che la storyline di Ken sia di poco supporto tematico a quella di Barbie sebbene entrambe riguardino il "trovare la propria identità".
Se Ken si trova ad affrontare un’avventura squisitamente circoscritta all'esperienza maschile, al personaggio di Barbie è affidata l’esperienza umana più universale, quella dell’accettazione della mortalità. Tuttavia, la sua storia perde un po' il suo focus nella seconda metà e viene risolta troppo frettolosamente, per concentrarsi su un irrilevante salvataggio di Barbie Land, che ruba l'ossigeno a quello che dovrebbe essere il conflitto centrale del film: il rapporto tra madre e figlia, letterale (tra Gloria e Sasha) e figurato (tra creatrice e opera, cioè tra Ruth e Barbie). Il tema, purtroppo, finisce con l'avere un ruolo marginale, non arrivando mai a sviscerare il conflitto, limitandosi a repentine intuizioni da parte dei personaggi che sembrano scaturire dal nulla.
In una scena, Barbie, sconfortata dalla ribellione dei Ken, afferma di aver sempre voluto che tutto restasse esattamente identico, senza alcun cambiamento, e Gloria le risponde "è la vita". Ma quando è che LEI ha accettato questa realtà? In uno scambio di pochi secondi in cui la figlia le fa i complimenti? Una donna che si è letteralmente messa a giocare con la Barbie della figlia in età adulta pur di non accettare il passare del tempo? Una donna la cui paura del cambiamento ha aperto un VARCO SPAZIOTEMPORALE CON IL MONDO DELLE BAMBOLE? Dove è che la vediamo accettare il cambiamento di sua figlia e l'evoluzione del loro rapporto? Vediamo solo un superficiale "riavvicinamento" tra le due, senza andare a fondo al conflitto: a un certo punto la tua bambina cresce e non vuole più giocare con le bambole. E questo vuol dire che il tempo passa e che tu morirai e, cosa ancora peggiore, il tempo passa per tua figlia e anche lei morirà ed è una cosa che nessuna quantità di glitter e plastica rosa potranno mai rendere accettabile, perché ci mette di fronte a due realtà inconciliabili: dare alla luce vuol dire condannare a morte.
È questo il dramma che affronta Gloria in quanto madre e Ruth Handler, in quanto artista: creare vuol dire distruggere. Ma, al tempo stesso, non si può chiudere la propria creazione in una campana di vetro, volere che non cambi mai. La realtà è che tanto Sasha quanto Barbie non appartengono più alle rispettive madri, il loro compito è lasciarle andare.
Sul finale, Ruth ci dice quello che il film tenta di mostrare e che dovrebbe legare le due storyline maschile e femminile: che gli esseri umani creano simboli, le Barbie così come il patriarcato, perché non sanno come gestire il fatto che debbano morire. Ma i fatti che vediamo contraddicono la tesi del film stesso: i Ken hanno creato il patriarcato e non devono morire. La board di Mattel non sembra particolarmente preoccupata per la propria mortalità, né particolarmente scioccata dall'esistenza di una dimensione alternativa in cui le bambole che vendono sono animate. L'unica cosa di cui si preoccupano sono i guadagni. Onestamente, non è nemmeno chiaro perché siano così preoccupati dalla ribalta dei Ken, visto che le vendite per loro vanno a gonfie vele. "per i sogni delle bambine" dice Will Ferrel nei panni del CEO, ma è poco coerente con tutto il resto di quello che vediamo.
Forse alla fine invece di Barbie Ordinaria (che anche in questo caso non vediamo mai) avrebbero dovuto proporre un rebranding di Ken "la Barbie da maskio", in un tentativo di dare un’identità a Ken e come critica alla tendenza del capitalismo di venderci prodotti inutilmente gendered (ciliegina sulla torta: il Ken da maskio costa di più, come i rasoi rosa).
Barbie è un film che mi ha lasciata estremamente insoddisfatta, non perché sia un brutto film, tutt’altro, ma proprio perché sarebbe potuto essere un film grandioso se avesse centrato il tema che si era proposto.
È così raro vedere una pellicola che affronta il tema della creatività da un punto di vista originale, e che lo fa utilizzando uno dei primi strumenti che le bambine hanno a disposizione per utilizzare la loro fantasia. Per molte di noi le Barbie sono state le prime modelle, le prime attrici, le prime muse. La maggior parte di noi non è diventata astronauta, chirurga, né presidente della corte costituzionale, né lo avremmo mai desiderato. Quello che Barbie ci ha dato, in fondo, è un potere ben più grande: quello di raccontare le nostre storie.
Gesù, di nuovo
Pinocchio è un film di animazione stop motion, diretto da Guillermo del Toro, con una sceneggiatura firmata da Guillermo del Toro e Patrick McHale (Over the Garden Wall).
Il film inizia con la visita di Geppetto a una lapide, quella del figlio, Carlo, morto a causa di un bombardamento durante la prima guerra mondiale. Accanto alla lapide c’è un pino, piantato da Geppetto il giorno del funerale di Carlo. L’albero è nato da una pigna che il bambino aveva selezionato accuratamente, nella speranza di piantarla e, un giorno, usare quel legno per realizzare stupende creazioni, proprio come suo padre. Il sogno viene stroncato dalle bombe, ma l’albero continua a crescere e diventa la casa di un grillo con velleità letterarie, Sebastian J. Cricket.
Una notte, Geppetto, ubriaco, decide di abbattere quel pino, in un moto di disperazione e lo trasforma in un burattino. Lungi dalle creazioni che lo vediamo realizzare con amore all’inizio del film (un paio di zoccoli per il figlio, un crocifisso per la chiesa), questa creazione nasce dalla rabbia, più simile a un mostro di Frankenstein che a un’opera d’arte (con tanto di notte tempestosa e fulmini). Infine, esausto, lascia il burattino incompleto sul suo tavolo di lavoro e si addormenta.
Con la sua sofferenza, suscita la pietà di una Fata Turchina come non si era mai vista, uno spirito del bosco che si presenta come la protettrice delle cose perdute, danneggiate e incomplete, e che decide di dare vita al burattino perché possa alleviare il dolore del vecchio. Scatena così le proteste del povero Sebastian, che si ritrova improvvisamente a vivere nel petto di un burattino. E così la fata turchina gli concede un desiderio, a patto però che diventi la coscienza di Pinocchio.
La presenza di un burattino vivo dà scandalo nel piccolo paesino di Geppetto, tanto che il podestà locale intima al vecchio di mandare Pinocchio a scuola, dove riceverà la disciplina che gli manca. Il povero Pinocchio, infatti, è ben lontano dal compianto Carlo, il figlio perfetto, e non fa altro che infilarsi nei guai e disubbidire. E così, invece di andare a scuola, il burattino pensa bene di unirsi al circo del Conte Volpe, che, con l’aiuto della sua scimmia Spazzatura, gli fa firmare un contratto con l’inganno. Toccherà al povero Geppetto andarlo a salvare e, durante una litigata tra il falegname e il conte volpe, ecco che Pinocchio finisce investito dal furgone del podestà e muore.
Pinocchio viene così trasportato da quattro conigli neri nell’oltretomba dove incontra la Morte, che è sorella della fata turchina, che gli spiega che potrà tornare in vita una volta trascorso il tempo indicato da una clessidra. Pinocchio, infatti, non è propriamente vivo e, quindi, non può morire davvero. Ogni volta che muore, però, dovrà aspettare un tempo sempre più lungo prima di poter tornare.
Al suo ritorno nel regno dei vivi, Pinocchio è conteso tra il podestà, che vuole farne il soldato fascista perfetto, e il Conte Volpe che millanta diritti sul burattino ed esige un risarcimento da Geppetto. E così, quella notte, preoccupato per le sorti del padre, decide di recarsi di nascosto dal Conte Volpe, pronto a onorare il proprio contratto a patto che il suo stipendio venga inviato a Geppetto.
Pinocchio inizia così a esibirsi in giro per l'Italia, con tanto di numero di propaganda fascista (probabile riferimento all’uso propagandistico che venne fatto del personaggio durante il ventennio), mentre Geppetto e Sebastian cercano di raggiungerlo per riportarlo a casa, senza mai riuscirci. Durante questo viaggio i due finiscono divorati da un mostro marino, mentre Pinocchio, dopo aver scoperto che il Conte Volpe si è intascato i soldi che spettavano a Geppetto, decide di umiliarlo davanti a Benito Mussolini in persona. La sua disobbedienza gli costa la vita, di nuovo. Stavolta, in compagnia della Morte, mentre attende di tornare indietro, si rende conto di una cosa importante: lui potrà anche essere immortale, ma le persone a cui vuole bene non lo sono.
Quando ero piccola amavo molto il film Il Corvo. In una scena del film, uno dei personaggi afferma che “l’infanzia finisce quando scopri che un giorno morirai”. Pinocchio dice qualcosa di radicalmente diverso: sappiamo che dobbiamo morire dal momento in cui nasciamo, la nostra infanzia finisce quando scopriamo che anche tutte le persone che conosciamo dovranno morire e che, con tutta probabilità, toccherà a noi sopravvivere.
È questo forse il momento in cui ci si discosta di più dalla fiaba che conosciamo. Pinocchio non deve imparare a ubbidire pedissequamente a un’autorità, ma a capire che le sue azioni hanno delle conseguenze e che queste conseguenze a volte ricadono sulle persone che ama. Non un senso di obbedienza, ma di responsabilità.
Quando Pinocchio si sveglia, si trova su un furgone pieno di bambini con il Podestà e suo figlio, Lucignolo, diretti a un campo di addestramento per giovani soldati, un perverso paese dei balocchi, dove ai bambini viene insegnato a sacrificarsi per la propria patria. A differenza di Barbie, in Pinocchio vediamo esplicitamente quanto il fascismo non sia altro che un culto della morte, un’offesa alla vita, alla gioia, all’infanzia.
Pinocchio, con la sua disobbedienza, mette in ridicolo le ideologie (il fascismo, ma anche l’efferatezza del conte Volpe in nome del guadagno), ne illumina la debolezza, il fatto che si basino su fondamenta instabili, che anche solo un semplice burattino può fare crollare da un momento all'altro. E nel disobbedire, ispira gli altri personaggi, Lucignolo e Spazzatura in particolare, a reagire e ribellarsi ai loro padri padroni.
Il film si chiude così come è iniziato, con una visita alle lapidi, che, pian piano, crescono di numero. Accanto a quella di Carlo, ora c’è Geppetto, poi Spazzatura e infine anche Samuel J. Cricket. Il ruolo di Pinocchio, da bambino vero, diventa quello di caregiver e, infine, di testimone. Se il lutto di Geppetto era disperato e inaccettabile, tanto da spingerlo a creare un simulacro del figlio morto, il lutto di Pinocchio è vissuto attraverso atti di cura, un funerale, un fiore su una lapide.
“Potremmo mai essere, noi, senza i morti?” chiede Rainer Maria Rilke nella Prima Elegia Duinese, ed è la stessa domanda che pone il film. Abbiamo bisogno di affrontare il lutto, abbiamo bisogno di costruire lapidi, piccoli altari di pietra alla vita che è stata e a quella che viviamo.
Lungi dalla relazione perversa dei fascisti con la morte e il sacrificio, il lutto e il sacrificio di Pinocchio sono atti di amore, atti che lo rendono davvero umano.
Per questa Luna è tutto, spero ti sia piaciuta. A seguire puoi trovare le fonti e gli approfondimenti. Come sempre, puoi seguirmi su Instagram, Twitter e Tumblr (sono heyclodia ovunque), dove posto i miei fumettini.
Alla prossima Luna,
Ciao!
Fonti e letterine:
Barbie Has Cellulite (But You Don't Have To)
Barbie - The Movie - Recensione
Che bellissima e interessantissima questa luna storta.